|
PREFAZIONE
Certamente Mnemosyne, la dea della memoria storica,
ha ispirato in questi anni dalle terre della Magna Grecia il napoletano
Camillo Albanese ed ha guidato la sua mano per scrivere un libro
che ricordi, nel bicentenario della gloriosa Repubblica napoletana
del 1799, quelle vicende che si conclusero tragicamente col massacro
di piazza Mercato, dove furono spenti nel sangue e nell'oblio i
filosofi, gli scienziati, gli statisti, tutta la più illustre
nobiltà napoletana e l'alto clero che si schierarono per
la filosofia, come si diceva allora, per la libertà e per
un vero Stato fondato sulla ragione e sulla giustizia.
Quando gli ergastolani liberati dalle carceri da
Ferdinando IV e dal Ruffo con l'autorizzazione al saccheggio e alla
violenza entrarono in Napoli, dopo aver abbattuto la resistenza
dei patrioti repubblicani ed aver orrendamente mutilato uomini e
donne (tra cui anche le dame di Corte che si protestavano fedeli
alla monarchia), era stato sottoscritto solennemente un trattato
di diritto internazionale, un armistizio che dava salva la vita
al patrioti repubblicani rimasti asserragliati nei castelli.
Il cardinale Ruffo, che aveva firmato il trattato
di armistizio nella sua qualità di plenipotenziario di Ferdinando,
aveva vanamente richiamato il re al suo rispetto, mentre da tutta
Europa si inviavano al Borbone messaggi ed esortazioni affinché
si desse esecuzione alle clausole dell'armistizio. Anche lo zar
Paolo I, figlio della grande Caterina, scrisse a Ferdinando: "cugino
Ferdinando, ti ho inviato i miei battaglioni per aiutarti a riconquistare
il regno perduto, ma tu non puoi mandare a morte il fiore della
cultura napoletana".
Tutto fu vano. L'ammiraglio Nelson si impose al
re e alle Giunte di Stato e riuscì a mandare a morte tra
i più grandi figli d'Europa i nomi illustri della cultura
napoletana, talché Vincenzo Cuoco esclamava nel suo saggio
storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799: "una notte terribile
si è abbattuta su Napoli e sull'Europa, che ne .sarà
di Napoli, che ne sarà dell'Europa?" Queste parole ci
dicono quale importanza ebbe per la politica e la cultura europee
prima il trionfo della Repubblica napoletana, che fu chiamato "vittoria
della filosofia" e poi il bagno di sangue e la illacrimata
sepoltura In cui furono soffocati i patrioti e la Repubblica e che
costituì, come si diceva allora, una "sconfitta per
la filosofia".
Vincenzo Cuoco, coi suo Saggio sulla Rivoluzione
di Napoli del 1799 e Francesco Lomonaco nel suo Rapporto al cittadino
Carnot testimoniarono l'ecatombe dei giustiziati.
L'Italia e l'Europa assistettero alla distruzione
di tutto un governo legale, legittimo perché fondato dai
patrioti dopo la fuga del re in Sicilia e riconosciuto a tutti gli
effetti dal trattato di armistizio firmato dal governo della Repubblica
napoletana, dal viceammiraglio della flotta inglese, dal comandante
delle truppe turche, dal comandante delle truppe russe e - come
si è detto - dallo stesso cardinale Ruffo, plenipotenziario
del re e comandante supremo dell'armata della Santa Fede.
Giustino Fortunato, nel raccogliere le memorie dei
martiri della Repubblica, così iniziava nel 1882 il suo scritto
I Napoletani del 1799: " ... i Borboni mandarono al patibolo
i più dotti e generosi uomini, che avevano preso parte per
la Repubblica, e il mondo sa i nomi di questi uomini ... ".
Così il Settembrini, parlando dei giustiziati
di Napoli del 1799: "Consacrati dalla gratitudine e dalla riverenza
de' posteri, richiamati a vita nuova dall'arte, oggi quei nomi,
divenuti sacro patrimonio della nazione redenta, hanno l'aureola
della gloria e il culto della memoria. È storia e già
pare epopea. Il martirio di quegli uomini è agli occhi nostri
come una leggenda, come un vivo sprazzo di luce, che redime tutto
un passato d'obbrobrio, e che è primo inizio delle rivoluzioni
del secolo; ed oggi ancora, monumento d'eroismo, i nomi di quegli
uomini danno fede e sentimento alle giovani generazioni, che hanno
la fortuna, dopo tante aspettative, di vedere attuata e benedetta
l'unità della patria. Né altro, in tutto il martirologio
italiano, è paragonabile a questo primo e generoso tributo
di sangue, offerto dai Napoletani del 1799".
E. in quello scritto, Giustino Fortunato si domandava
se il mondo conoscesse davvero tutti i nomi dei giacobini napoletani
e rispondeva che era veramente vergognoso, dopo vent'anni di vita
libera dell'Italia unita, dover rispondere che la società
italiana avesse dimenticato quella terribile ecatombe in Napoli
e nelle province che a suo tempo stupì il mondo civile e
rese attonita e dolente tutta l'Italia.
Nella sua Storia del Regno di Napoli,, nell'altro
Grande libro su La Rivoluzione napoletana del 1799 e negli altri
scritti che durante tutta la sua vita Benedetto Croce dedicò
al patrioti napoletani possiamo leggere con commozione quelle frasi
che il filosofo scrisse con tanta passione, affidandole alle nuove
generazioni: "quei giacobini napoletani, uniti coi loro fratelli
di tutta Italia. trapiantarono in Italia l'ideale della libertà
secondo i tempi nuovi, come Governo della classe colta e capace,
intellettualmente ed economicamente operosa... e abbatterono le
barriere che tenevano separate le varie regioni d'Italia, specialmente
della meridionale dalla settentrionale e formarono il comune sentimento
della nazionalità italiana, fondandolo sopra un sentimento
politico comune".
E Benedetto Croce ancora ci ricorda "l'orrenda
reazione borbonica contro tutti i giacobini, vecchi e recenti: una
reazione che forse non ha pari nella storia, perché non mai
come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte e agli
ergastoli o scacciare dal Paese prelati, gentiluomini, generali,
ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili,
tutto il fiore intellettuale e morale del Paese: una reazione che
suscitò vivissime impressioni dappertutto in Europa, perché
parve, come è stato notato da uno storico tedesco, un chiaro
saggio di quel che l'Ancien Régime avrebbe fatto in Francia
e altrove se mai avesse ottenuto il di sopra".
Quasi una premonizione, questa del Croce, ai revisionisti
ed opportunisti che oggi si affollano in tutti i Paesi d'Europa
per creare viete mode storiografiche.
E continua: "i patrioti napoletani e gli altri
rifugiati ed esuli da ogni parte d'Italia concepirono un gran pensiero:
la liberazione dell'Italia intera, da riunire in una Repubblica
italiana una e indivisibile; e quest'idea... lasciò un solco
nelle menti, donde più tardi sarebbe sorta luminosa".
Alessandro Manzoni diceva di aver raccolto il suo
"liberi non sarem se non siamo uni" da Vincenzo Cuoco
e Giuseppe Mazzini, poco più che ventenne, leggeva e trascriveva
gli articoli di questa ispirazione, che lo stesso Cuoco aveva pubblicato
sul Giornale Italiano.
È una fortuna che oggi, alla vigilia del
bicentenario del 1799, Camillo Albanese, sulle orme di Vincenzo
Cuoco e Francesco Lomonaco, faccia risorgere nella Milano di Verri
e di Beccarla, nella Milano dei moti quarantotteschi, nella Milano
di Alessandro Manzoni la memoria di quei napoletani sia martiri,
sia scampati al bagno di sangue del 1799. Questi ultimi, come tanti
piccoli vulcani, si sparsero per l'Italia per recarvi in ogni luogo
il messaggio dei filosofi, degli scienziati e degli statisti martiri
del 1799 e di una Napoli che, come scrisse Benedetto Croce, "fu
sempre unitaria".
Gerardo Marotta
Presidente Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
|
|
|